giovedì 19 dicembre 2013

Perdere il lavoro: disoccupazione, depressione o possibilità di rinascita



Ho deciso di copiare qui un articolo scritto da me che verrà pubblicato tra qualche giorno su www.ansiasociale.it e www.benessere4you.it, dove abitualmente pubblico articoli che trattano argomenti di psicologia (se volete, andate a dare un’occhiata).
L’argomento è delicato, quindi non pretendo di esaurirlo in poche righe, ma ho raccolto alcuni dati e riflessioni.

Secondo i dati dell’Istat, alla fine del 2013 la disoccupazione in Italia raggiunge un nuovo record, con i dati peggiori dal 1977 a oggi. Il numero di disoccupati arriva a toccare quota 3 milioni 194mila,  in aumento dello 0,9% su agosto e del 14% su base annua. Se il tasso generale sale al 12,5%, a soffrire di più sono ancora una volta i giovani che arrivano al 40,4%.
Di pochi giorni fa le ultime notizie su imprenditori strozzati dalle banche che si sono suicidati. Secondo una ricerca dell'Eures (istituto di ricerche economiche e sociali) del 2012 la crisi economica ha aumentato la propensione al suicidio. Nel 2009 i suicidi sono aumentati in generale, e in particolare tra i disoccupati, raggiungendo la preoccupante proporzione, tra questi ultimi, di quasi uno al giorno. Colpiti entrambi i sessi, ma in particolare gli uomini.
Durante la grande crisi che colpì le economie asiatiche nel 1997 i suicidi aumentarono del 40%, rispetto all’anno precedente.

Il Prof. Piero Barbanti, primario del Centro delle Cefalee e del dolore dell’IRCCS San Raffaele Pisana, spiega che con la crisi economica sono aumentati i disturbi depressivi, tutti i disturbi della sfera ansiosa, l’uso di alcoolici e di droghe, gli omicidi e le morti violente, le violenze domestiche e i divorzi, gli accessi al pronto soccorso ed alle strutture psichiatriche. 

Naypong
Questa la drammatica situazione
È inevitabile? Perché accade?
La mente è bravissima a dare giudizi. Sugli altri, ma soprattutto su noi stessi. Capita a molte persone disoccupate, di identificarsi, fondersi, con pensieri di fallimento (“non troverò un altro lavoro, tanto c’è la crisi”), di incapacità (“sono un fallito, non sono capace di fare nulla”), di impotenza (“non dipende da me, non c’è nulla che posso fare”).
E poiché questi pensieri fanno star male, facciamo di tutto per evitarli. Se pensare al lavoro fa emergere anche questi contenuti, allora farò in modo di tener lontano anche quel pensiero: evitando tutto ciò che può ricordarmelo (cercare un lavoro) e distraendomi (bevendo, guardando la tv, uscendo con gli amici). In parole semplici, tutto ciò che mi ricorda il fatto di essere disoccupato mi fa star male, quindi cerco di evitarlo, non mettendo in atto quelle azioni che potrebbero portarmi verso una soluzione.

Il problema sembra essere soprattutto maschile, perché va a toccare un tasto molto delicato dell’identità dell’uomo: se non lavoro, che uomo sono? Qual è il mio ruolo in famiglia o nella società? Una donna può essere moglie, madre, disoccupata, “mantenuta” addirittura, quasi senza vergognarsene, ma un uomo? Ho conosciuto uomini in cassa integrazione che si vergognavano di farsi vedere in giro durante il giorno perché temevano il giudizio di chi, vedendoli, avrebbe pensato “ma non va a lavorare questo qui?”.

La psicologia può essere di aiuto in questa situazione per mobilitare le risorse dell’individuo. È necessario che la persona in difficoltà impari un nuovo modo di gestire pensieri fastidiosi e sentimenti dolorosi. Purtroppo non è possibile farli scomparire dalla propria mente, ma un conto è immergervisi completamente, un altro è notarli quando si presentano, capire se sono utili o meno alla propria situazione, e lasciare che siano presenti senza che influenzino le proprie decisioni.
Alcune persone riescono grazie a questa “strategia” a vedere dove sono le opportunità migliori per sé, a capire cosa è necessario fare per trovare un nuovo lavoro e, magari, a trovare il coraggio di cambiare e sperimentare strade nuove.
Tutto questo è difficilissimo, ma possibile.

martedì 10 dicembre 2013

“E allora impara a vivere…”



Quando avevo 20 anni ogni scusa era buona x fare festa: si festeggiava la fine degli esami universitari, l'inizio delle vacanze, la fine delle vacanze, i compleanni, gli onomastici, gli incontri, le saparazioni, i litigi, le riappacificazioni, gli anniversari, i mesiversari...insomma, un pretesto si trovava sempre. Che poi non è che si facesse chissà che: si usciva per una pizza, si andava a bere qualcosa , magari a ballare. Quello che si faceva tutti i weekend, ma con uno spirito più festaiolo, appunto, si aveva voglia di godersi la serata, magari fare qualche follia. E ci si concedeva un vestito nuovo, ore di preparativi con le amiche per farsi belle, pomeriggi di aspettative e speranze.
Oggi mi è venuta in mente questa cosa. Mi sono accorta che quando si diventa "adulti" il lavoro, la stanchezza, i pensieri creano una routine da cui è più difficile uscire. Ma chi ci impedisce di festeggiare ancora?
X posid
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A quanti capita di avere nell'armadio un vestito nuovo o quasi, che attende "un'occasione speciale" per essere indossato? Alcune signore hanno il servizio buono, da sfoggiare magari una volta all'anno, insieme a qualche gioiello. È bello prendersi cura delle proprie cose, ma spesso si rischia di lasciarle chiuse in un armadio o in una credenza per anni, a riempirsi di polvere o passare di moda (e di taglia!). Aspettando "l'occasione giusta", il “momento giusto”.

Ma qual è il momento giusto? Quando ho avuto problemi di sovrappeso, dopo la prima gravidanza, mi rifiutavo di comprare vestiti nuovi, orrendamente “enormi” perché non erano della mia solita taglia. In quelli vecchi però non entravo più e il risultato era che andavo in giro sempre con i soliti brutti jeans. Ho smesso di curarmi, indossavo larghi e comodi  maglioni perché non “meritavo” di indossare bei vestiti, visto che mi sentivo brutta e grassa. Smalto, addio. Tacchi, nemmeno presi in considerazione. Cominciai ad entrare in depressione. Ovviamente il sovrappeso non era l’unico motivo (ma di questo parlerò un’altra volta…). Volevo ricominciare a prendermi cura della mia femminilità, ma aspettavo “il momento giusto”, quando fossi stata “abbastanza bella/magra/ecc.”.  E il momento non arrivava. Dopo un percorso personale faticoso, ho ricominciato a prendermi cura di me, benchè il mio peso non fosse cambiato. Ed ho riassaporato il piacere di indossare un bel vestito, anche se non della taglia 40…indovinate? Ovviamente sono migliorate le relazioni con tutte le persone che mi stavano vicine, con i miei figli e…sono anche dimagrita!
Allora, qual è l’occasione giusta per festeggiare? E se fosse oggi?
"E allora impara a vivere. Tagliati una bella porzione di torta con le posate d'argento. Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. Apri gli occhi. Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada."
Sylvia Plath

lunedì 2 dicembre 2013

Il mio fiore calpestato



Pochi giorni fa è stata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e chi mi conosce sa che questo è un argomento che mi sta molto a cuore. Ho deciso, quindi, di raccontare la storia di Maria,  e chissà che non sia utile a qualcuno. 

Maria ha un viso molto dolce, è madre di tre adolescenti ed è molto innamorata del marito. La prima cosa che mi disse entrando nel mio studio fu: "io sono del Sud e da dove vengo io le donne assecondano sempre i mariti". Cominciamo bene, ho pensato... in quel momento non immaginavo che questo incontro avrebbe cambiato le nostre vite. Una psicologa, una vittima di maltrattamenti: due donne.
Faraway


Maria è una delle tante donne che ha subito violenze fisiche e psicologiche da parte del marito e che ha permesso che anche i suoi figli le subissero. Si è sposata piuttosto giovane ed ha subito avuto tre bambini. Ce ne sarebbe stato un quarto, ma quando il marito scopre che Maria è di nuovo incinta, la convince ad abortire, poiché le condizioni economiche in cui versano non sono floride.
Non senza difficoltà resto ad ascoltare la sua storia. Come si sono conosciuti, il matrimonio, i primi anni passati a casa della suocera. Le fatiche quotidiane, tutte sulle spalle di Maria, compresi i problemi di salute del piccolino, che necessita ricoveri ed interventi, mentre il padre si disinteressa a tutto e tutti.  Non ha un lavoro fisso, la sera esce, si ubriaca, rientra tardi, forse ha delle amanti. Pretende che lei stia sempre in casa, che riesca a far quadrare il bilancio familiare e che sia sempre sessualmente disponibile. Dopo qualche anno emigrano al Nord, sperando di trovare condizioni lavorative più favorevoli. I rapporti diventano sempre più tesi. 

Cominciano le violenze fisiche: discutere per le banalità quotidiane e ricevere schiaffi diventa la regola. Ma forse fanno più male le offese. L’uomo che ama la fa sentire una nullità, le dice che non vale niente e la chiama “poco di buono” (usando un termine molto più volgare) per qualsiasi motivo, anche davanti ai figli. È una …. perché gli fa notare che non ci sono abbastanza soldi, perché gli chiede di darle una mano in casa, perché non ha educato bene i suoi figli che non gli portano rispetto, perché si rifiuta di fare sesso con lui ogni volta che lo desidera. E lo desidera spesso, anche diverse volte al giorno, anche se in casa ci sono i ragazzi che sentono tutto, anche se Maria è stanca o malata. E ogni volta deve assecondare la sua volontà di vederla sottomessa, in pratiche sessuali che la fanno sentire “sporca”, mentre lei vorrebbe solo fare l’amore con lui, perché lo ama ancora.

La gioia più grande di Maria sono i suoi figli, che la adorano. Detestano il padre, a cui non sono legati né da affetto né da stima. Ormai grandi, capiscono che il suo comportamento non è la normalità, nelle altre case ci sono padri imperfetti ma amorevoli, che lavorano, rispettano gli altri membri della famiglia sia con le parole che con i fatti, e quando si arrabbiano al massimo alzano la voce.
Un giorno, poiché il figlio maggiore non ha obbedito ad un suo ordine, questo signore lo blocca e comincia a prenderlo a pugni sul viso e in testa. Maria si mette in mezzo per proteggere il ragazzo e si becca uno schiaffo così forte che le lesiona un timpano. Altre volte, quando vede che le discussioni tra il padre e uno dei figli diventano accese, picchia lei stessa il ragazzo, perché almeno può controllare la violenza della punizione.

Al termine di questo racconto io, la psicologa a cui Maria chiede aiuto, non riesco a trattenere le lacrime. La rabbia, lo sdegno e il dolore per ciò che ho ascoltato non posso trattenerli. E Maria, che si è sempre occupata di tutti, si preoccupa anche per me, non vuole turbarmi perché sono incinta, aspetto il mio secondo figlio. Cominciamo la nostra psicoterapia insieme. Una percorso non privo di ostacoli, devo ammettere, perché è difficile per Maria allontanare l’uomo che ama, nonostante tutto, anche se la picchia, anche se picchia i suoi figli. È difficile lottare contro la propria famiglia che le dice che non può permettersi di comportarti così, deve sopportare in silenzio e basta, che non è  mica l’unica. È difficile affrontare i problemi pratici ed economici che una separazione comporta, crescere da sola tre figli. Durante questo percorso ci sono state riappacificazioni col marito, nuove violenze, corse al pronto soccorso, denunce. L’ultimo episodio riguardava uno dei ragazzi, buttato giù dalle scale dal padre a cui forse aveva risposto male.

Anche i rapporti tra me e lei non sono sempre stati facili. Ogni volta che mi diceva di amarlo e di voler  tornare con lui, la mia razionalità si ribellava, mi chiedevo : “ma come fa a non capire che lui non la ama e non la rispetta? Come fa ad amare l’uomo che massacra i suoi figli?”. Tutte e due abbiamo dovuto imparare una lezione: si possono provare dei sentimenti ma non per forza si devono assecondare. Si può scegliere come comportarsi, ciò che è più giusto per noi. Per me era importante esserci per lei, sempre e comunque, qualsiasi decisione avesse preso. Per lei era importante prendersi cura dei propri figli e di se stessa.